Written by 9:51 Il Sole 24 Ore, Media

Internet dibatte tra pagamento e sfruttamento dei dati

Internet si sta rompendo? È la domanda che in tanti si stanno ponendo visto il cambio possibile del suo business model.

di Vincenzo Tiani

Internet si sta rompendo? È la domanda che in tanti si stanno ponendo nelle ultime settimane, dopo una serie di eventi che hanno riguardato il modo in cui funziona internet. Questi eventi riguardano aziende diverse, tutte collegate da un fil rouge: il business model della monetizzazione dei dati.

Il primo tassello ci viene fornito da Meta. L’azienda dietro Facebook, Instagram, WhatsApp e il Metaverso ha ricevuto da poco una sanzione dal Garante della privacy irlandese, avallata dal Comitato dei garanti europei. I Garanti hanno stabilito che l’azienda non può usare il contratto, come base giuridica prevista dal GDPR, per ottenere i dati personali degli utenti per fornire loro pubblicità personalizzata. Il concetto di scambio tra dati personali (e il valore che essi generano) e il servizio “gratuito” del social network non sembra reggere per l’Autorità, o almeno non fino a consentirne la profilazione. È pur vero, però, che questo scambio è oggi riconosciuto dalle stesse normative europee come la recente direttiva 2019/770 sui contratti dei servizi digitali. Nelle sue premesse la direttiva riconosce l’esistenza di casi in cui il consumatore, invece di pagare per un servizio, fornisce i suoi dati personali all’operatore economico. Si tratta di modelli commerciali utilizzati “in una parte considerevole del mercato”, e il legislatore ci dice che pur se “la protezione dei dati personali è un diritto fondamentale e che tali dati non possono dunque essere considerati una merce, la presente direttiva dovrebbe garantire che i consumatori abbiano diritto a rimedi contrattuali, nell’ambito di tali modelli commer­ciali”. Resta dunque da capire quale sia il limite oltre il quale questo scambio sia da considerarsi illegittimo.

Il secondo tassello ce lo forniscono i giornali. A partire dall’anno scorso moltissimi quotidiani hanno modificato il cosiddetto cookie banner dei loro siti. Chi tra voi legge effettivamente quello che questi banner dicono avrà notato un cambiamento radicale. Non è più previsto che si possa usufruire di un accesso gratuito ad alcuni contenuti senza essere al contempo tracciati. L’alternativa è pagare un piccolo obolo (1 euro al mese) o abbonarsi. Il motivo, molto semplice, è che la pubblicità non profilata paga molto meno di quella basata sui propri gusti e interessi. Al momento il Garante della privacy sta indagando sulla legittimità o meno di tale scelta, visto che il consenso al tracciamento dovrebbe essere per legge libero.

C’è una cosa che accomuna queste due storie. Con gli anni ci siamo abituati a pensare che servizi come social media e giornali online siano gratuiti, come se dietro non ci fossero il lavoro di centinaia di persone, oltre ai costi da sostenere. Perché questo? Perché il diritto ad informarsi e ad informare sono anch’essi diritti fondamentali. Così come lo sono il diritto alla protezione dei dati personali e alla libera iniziativa economica.

Da un lato c’è il diritto di queste aziende ad essere giustamente remunerate, dall’altro quello degli utenti/lettori a non essere tracciati. Lo spettro di una società a due corsie, una per chi può permettersi la privacy e una per chi non può, è reale e, con il perfezionarsi costante della tecnologia e della sua capacità di leggerci dentro e guidare i nostri consumi, le ripercussioni sulla nostra società saranno sempre più evidenti se non fissiamo bene i paletti ora.

Dall’altro lato altri attori si stanno spostando verso un mondo senza cookie in cui sia ancora possibile offrire pubblicità personalizzata ma offrendo maggiori garanzie per la tutela dei dati personali. L’alternativa, al momento, sembra essere un internet in cui pagare per informarsi, come poi succedeva fino a 20 anni fa.

L’articolo è comparso originariamente sul Sole 24 Ore di Domenica 19 Febbraio 2023.

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